Counselor e Clienti Transgender

Clienti Transgender

(di M. Pilia)

Il 20 Novembre 2016 è stato il ventesimo anniversario della “ Giornata della Memoria Trans-gender”. Questo ci ricorda che una gran parte della suddetta popolazione è stata vittima di discriminazione ed ignoranza sociale e che più di un terzo della popolazione transgender ha tentato il suicidio. Per le persone il cui genere si allinea con il proprio sesso biologico l’idea che i due  - genere e sesso - possano non essere allineati può sembrare atipico o "diverso", ma bisogna proprio considerare le persone transgender "strane" se non addirittura "malate"?  Trattare diversamente le persone in base alla loro identità di genere è come la discriminazione di razza, abilità e cultura. 

Purtroppo ancora frequentemente l’identità di genere e l’orientamento sessuale si confondono e la battaglia delle persone trans-gender viene erroneamente definita “per l’uguaglianza dei diritti sessuali”. Basti pensare che in italiano non esiste una parola che identifichi la popolazione transgender (inglese), a parte transessuale, che ha una connotazione prettamente sessuale. Questo non solo normalizza la marginalizzazione e lo stigma riguardo le identità transgender ma cosa più importante, riduce le vite delle persone transgender all’atteggiamento e comportamento sessuale e descrive la loro identità in modo inaccurato, non necessario ed incompleto.

Ma c’è tempo per una breve riflessione?

Ho passato la mia pubertà in un collegio religioso maschile, ho fatto la mia prima esperienza sessuale in un mondo di repressione e sensi di colpa. Non solo ho fatto pratica del peccato originale ma ho anche rivisto il suo copione usando due figure maschili. Quando l’ho detto ad un amico in cerca di rassicurazione, mi ha dato una risposta che mi ha messo ancora più ansia: “Chi ha fatto la femmina?” Così, incompreso, ho passato il resto della mia adolescenza stando attento, stressandomi che nessuno sapesse, sentendomi scoperto e iper-compensando con studi e quant’altro.  Così ho potuto rendermi conto del pregiudizio della maggior parte della gente che se non rientri nel tuo ruolo, appartieni al sesso opposto.  

   Il fatto è che la maggioranza delle persone è eterosessuale e quindi non mette o deve mettere in dubbio il proprio orientamento sessuale, né deve fare coming out proprio perchè dà per scontato di essere  maschio o femmina, appartenente al genere binario. La struttura patriarcale che la filosofia femminista vuole sradicare, perpetua il patologico, identificando dei ruoli su un unico genere binario  limitando ed opprimendo chiunque non vi appartenga. Purtroppo sono ancora troppo poche le persone che si sentono a proprio agio in presenza di persone trans per cui, pur avendo raggiunto i diritti civili, si è ancora lontani dal raggiungere quelli d’identità. Il disagio e l’omertà si nascondono inconsciamente nelle discussioni di uguaglianza, dignità e rispetto che avvengono in un’arena di taboo che la nostra società repressa ci consiglia di ignorare.

Ci siamo mai domandati: “E se non mi fossi mai sentito a mio agio nel mio corpo? Cosa sarebbe successo se non avessi sentito mio il genere che mi è stato assegnato alla nascita? Pensiamo  veramente che chiunque faccia outing come transgender , non abbia mai provato ad interpretare il genere assegnatogli alla nascita? Pensiamo veramente che, nel momento in cui qualcuno, di qualsiasi età, sia coraggioso abbastanza da dire: “So che mi hai sempre visto e pensato come femmina (o maschio) ma in effetti sono  transgender”, egli non abbia lottato abbastanza?  Se queste domande non ce le siamo mai poste e se ancora ci mette a disagio la sessualità dei giovani - siano essi etero, gay, lesbiche, bisessuali, a-sessuali, di genere fluido, trans, queer, pan-sexual o incerti, significa che siamo incapaci di sostenere la nostra identità davanti a ciò che è sconosciuto e diverso.

Quando si discute di transgender e delle loro identità, la retorica usata è quella della stranezza e del patologico. Significa essere ridicolizzato, ostracizzato e qualche volta divenire un facile bersaglio per persone conosciute o meno. Significa mettere a rischio la propria esistenza.  E se poi fosse solo una fase veramente? Per esempio la lotta per l’uso dei bagni. Ma è possibile che un transgender debba lottare per sapere quale bagno pubblico usare? La privacy delle persone transgender sull’uso delle toilettes ha infatti da sempre attratto i media. Basti ricordare l’ondata di malcontenti creata da Vladimir Luxuria quando ha posto la questione in Parlamento.

Se rimaniamo ancora sconcertati  davanti alla sessualità ed in particolare alle diverse identità di genere è perché diamo per scontata  la nostra  comprensione dell’identità di genere. Dobbiamo realizzare che tutti quanti noi abbiamo il diritto di espressione e che tutti abbiamo diritto ad avere la nostra identità protetta  e che non si tratta di diritti sessuali bensì di diritti di genere. E se c’è una cosa che continua a modificarsi nel tempo, è il concetto di genere.  L’identità di genere è una componente  innata dell’essere umano. Essa si basa sull’identità della persona per cui non solo è interiore ma è anche in continuo cambiamento, e oggi siamo in grado di dare un nome alle varianti di genere che sono in noi, a qualsiasi identità si appartenga. Adesso è arrivato il momento di adeguare il linguaggio a queste diverse identità, riconoscendole e rinunciando all’omertà e alla chiusura. 

Fare counseling a una persona trans-gender significa proprio riflettere sull’identità e sulle complicazioni che questa comporta nell’individuo. Lavorare con un cliente transgender implica che il counselor abbia familiarità con i principali problemi di natura psico-sociale dei  transgender  e che egli tenga presente che alcuni transgender - o loro cari - si affidano al counseling per problemi che niente hanno a che fare con il loro essere transgender. Con questi clienti consapevolezza e sensibilità non saranno abbastanza. Il counselor che intraprende un percorso con un cliente transgender ha il compito d’informarsi su come navigare il sistema in cui il transgender vive. Deve diventare capace di fornire una serie di contatti, gruppi, professionisti al quale riferire il proprio cliente e fornirgli un supporto a tutto tondo, in senso olistico. E a prescindere dall’obiettivo che pone il cliente transgender in base alle proprie circostanze individuali, l’obiettivo primario del counselor è quello di esplorare e definire le barriere sociali che interferiscono con la funzionalità e la quotidianità del cliente.

        È importante stabilire come quest’ultimo/a  preferisce essere chiamata/o  durante  gli incontri ed i vari nomi, se più di uno, con cui si fa chiamare; così come è importante l’uso del o dei corrispondenti pronomi.  Un uso congruente e accogliente di questi ultimi sarà necessario per l’esplorazione della dimensione personale del cliente, dall’acquisizione della sua cartella anestetica alla graduale scoperta dei  vari attori del quadro gestaltico. 

           Una cosa a cui prestare attenzione in quanto counselor è la “in-group discrimination” ovvero la discriminazione interna. Lo sappiamo tutti quanto è doloroso sentirsi traditi da qualcuno che ci è caro, che appartiene alla nostra cerchia di amici. Si badi bene, la discriminazione interna danneggia la persona più del danneggiamento che si riceve dall’esterno. È facile ignorare o inveire come appartenente alla comunità LGBTQIA … contro gli etero che sono la maggioranza e non molto popolari in questo momento.  Esiste la propria appartenenza ad un gruppo, per cui della maggioranza alla fine dei conti si può comunque fare a meno. Non c’è bisogno dell’approvazione di quest’ultima per andare avanti. Ma è quando la discriminazione arriva dall’interno, cioè da parte di persone della stessa comunità delle diversità sessuali di genere, che ci si sente emarginati. È come precludersi l’unica maniera di creare amicizie ed avere l’opportunità di trovare l’amore. Fa più male perché di loro abbiamo più bisogno. E, in tempi in cui l’Italia sta solo iniziando ad aprirsi avendo così l’opportunità di esplorare lo spettro fluido dei vari generi, si pensa generalmente ad un periodo di sperimentazione. Specialmente nei panni di genitore o amico appartenente al genere binario dici: “ Wow, aspetta un momento, andiamoci piano e parliamone …” La realtà è che fare coming out come transgender significa proprio perdere ciò che di più caro si può avere: la famiglia e gli amici.

Ci saranno sempre più persone etero che gay, lesbiche, bisessuali, pan-sessuali, a-sessuali etc ... avremo sempre una tendenza all’isolamento e in qualche misura sentirci soli nella nostra famiglia, nelle nostre scuole, palestre e comunità. Abbiamo quindi tutti il dovere di riflettere sull’intreccio tra identità di genere, la sua espressione e i problemi che questa comporta. 

Magari non percepiamo di essere nati nel corpo sbagliato, ma non ci vogliamo conformare al solo ruolo binario che la società offre, portando avanti così inconsciamente o consciamente la nostra protesta sociale contro i ruoli da essa imposta.  È quindi ora di celebrare la diversità come risorsa del genere umano e trasferire il discorso verso l’integrità individuale e l’autenticità esistenziale, dove ciascuno porta il peso e la responsabilità del proprio essere affinché sia possibile e sicuro per tutti essere se stessi piuttosto che dover educare gli astanti sul come comportarsi.

Questo significherebbe che le persone trans potrebbero finalmente smetterla di inquisire la propria identità o dubitarne, per andare verso una autorealizzazione meno dolorosa in un ambiente più accogliente che favorisca la crescita personale.

Marco Pilia, Counselor e psicoterapeuta registrato BACP,  ipnoterapeuta NGH, associato PinkTherapy,  e docente Cipa