Conoscersi e superare gli ostacoli attraverso la narrazione retrospettiva di sé
(di A. Duranti)
L’autobiografia o la narrazione retrospettiva di sé, è una modalità di formazione e cura, in cui narratore e protagonista coincidono. Essa può essere particolarmente utile ed efficace in una serie di sedute di counseling individuale o di gruppo. Ecco la definizione che ne dà Philippe Lejeune ne Il patto autobiografico: «Racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità» (Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, 1986, Il Mulino, Bologna, p.12).
La parola autobiografia, auto (se stesso), bio (vita) e grafia (scrittura), rimanda al lavoro che la persona fa su di sé attraverso il mediatore artistico della scrittura.
La scrittura è mediatore grazie alla tecnologia (qui la parola tecnologia ha il significato di applicazione pratica di una determinata conoscenza) propria della parola. Attraverso la scrittura l’uomo interpreta e significa la propria realtà. Scrivere significa dare forma alla propria vita e a quei frammenti e polisemie del proprio Sé, al fine di ritrovarsi, per dare un’integrazione e coesione alla propria identità, inevitabilmente estroflessa nella quotidianità del mondo. La scrittura, momento di pausa e di ritiro dal mondo, è un vero processo euristico in grado di trasformare il vissuto e ri- significarlo; questo è possibile grazie alla distanza che si viene a creare tra il sé narrato e il sé narrante (bilocazione cognitiva).
La scrittura autobiografica è capace di cambiare la rappresentazione dei fatti biografici, non i fatti in sé, che rimangono tali nella storia di vita della persona:
«Quando ripensiamo a ciò che abbiamo vissuto, creiamo un altro da noi. Lo vediamo agire, sbagliare, amare, soffrire, godere, mentire, ammalarsi e gioire: ci sdoppiamo, ci bilochiamo, ci moltiplichiamo. […]Per rientrare in se stessi, per rimettere in ordine le tessere scompigliate della sensazione di panico emergente, il rimedio è costituito dall’imparare, senza paura, a sdoppiarsi e moltiplicarsi. Soltanto nel momento in cui diventiamo capaci di questo proviamo l’emozione di rinascere, perché assistiamo alla nascita dei molti io che siamo stati, li seguiamo nei loro primi passi, li vediamo confondersi tra loro senza più continuità nei passaggi che hanno attraversato» (Duccio Demetrio, Raccontarsi, 1996, Raffaello Cortina, Milano, pp. 12 – 83).
La scrittura come contenitore e deposito di vissuti, permette di allargare e rivitalizzare il proprio “spazio interno”, luogo ove è possibile fare silenzio, creare un “vuoto fertile” ed ascoltarsi per generare, a partire da lì, senso e significato rispetto al proprio vissuto agito o fantasticato, capace di ripensare il presente per progettare il futuro:
«Noi abbiamo una nascita che è determinata dall’atto di procreazione dei nostri genitori[…]Ma poi c’è un’altra nascita che non è quella recepita dall’esterno e che è precisamente la nascita che noi ci diamo da noi stessi raccontando la nostra storia, ridefinendola con la scrittura che stabilisce il nostro stile secondo il quale noi esigiamo di essere compresi dagli altri. È questa la nascita che noi, attraverso la scrittura, ci diamo da noi stessi» (Aldo G. Gargani, Il testo del tempo, 1992, Laterza, Bari, p. 5).
L’identità della persona è in continua trasformazione, in cui narrare è sia riflettere sul passato per recuperare trame obliate, latenti o rimosse, sia mutare il presente sulla scorta di esso, immaginando delle alternative, strade e percorsi inediti nella biografia della persona.
Il processo attivato dall’autobiografia, venendo a contatto con la molteplicità dell’io che siamo stati, «ridimensiona l’Io dominante e lo degrada a un io necessario che possiamo chiamare l’io tessitore, che collega e intreccia; che, ricostruendo, costruisce e cerca quell’unica cosa che vale la pena cercare costituita dal senso della nostra vita e della vita» (D. Demetrio, Raccontarsi, cit., p. 14).
Ascoltare la propria storia dentro di sé nel proprio dialogo interno è un passo necessario, è possibile così vedersi come in uno specchio, per riconoscersi e dare corpo come in un’armonia musicale alle tante note presenti nel proprio Sé:
«Si impara dall’analisi della propria storia, si impara apprendendo da se stessi e si inizia a coltivare un vizio che ci porta, se lo desideriamo, ai nostri anni adolescenti: quando il diario, la poesia, la novella, senza che noi lo sapessimo, già segnalavano quella che poi, nell’età degli anni maturi e senili, si sarebbe trasformata in passione autobiografica […]Ma erroneo e deprimente è vivere l’autobiografia come farmaco per liberarsi del proprio passato prendendone le distanze. La vera cura di sé, il vero prendersi in carico facendo pace con le proprie memorie inizia probabilmente quando non più il passato bensì il presente, che scorre giorno dopo giorno aggiungendo altre esperienze[…] entra in scena. E diventa luogo fertile per inventare o svelare altri modi di sentire, osservare, scrutare e registrare il mondo dentro e fuori di noi» (ivi p. 15).
L’operazione di rimembrare il passato, grazie al pensiero autobiografico, permette di “fare tregua” e rappacificarci con esso e tale esercizio ha efficacia se diviene un compito quotidiano.
Il counselor può compiere una riorganizzazione del campo narrativo del cliente:
«In questo senso parliamo di narrazione creativa; attraverso la narrazione della storia, non solo vengono comunicate le proprie emozioni, ma viene favorita anche la riconciliazione di parti frammentate del sé; il nominarle e il definirle produce l’acquisizione di consapevolezza, punto iniziale per un’evoluzione che coinvolge l’intero sistema di sé attraverso il ri-orientamento» (Oliviero Rossi, Lo sguardo e l’azione, 2009, Edizioni Universitarie Romane, Roma, p. 50).
La cura di sé, cornice (frame) che ospita l’autobiografia, è una pratica precipua dell’uomo, come ci ricorda Umberto Galimberti: «Mentre l’animale può anche non conoscere se stesso perché la sua vita è regolata dall’istinto, l’uomo, privo com’è di istinti, come ci ricorda Platone, è delegato alla cura di sé. La carenza istintuale, infatti, se da un lato svincola l’uomo da qualsiasi comportamento codificato, dall’altro lo libera in quello scenario del possibile dove, se vuole evitare di perdere la propria vita prima ancora che giunga la morte, deve reperire la propria misura» (La casa di psiche, 2008, Feltrinelli, Milano, pp. 403 - 404).
Michel Foucault ha definito la cura di sé immettendola nello spazio delle “tecnologie del sé” che sono così da lui quadripartite:
«1)Le tecnologie della produzione, dirette a realizzare, trasformare o manipolare gli oggetti;
2)Le tecnologie dei sistemi dei segni, significati, simboli, significazioni;
3) Le tecnologie del potere, che regolano la condotta degli individui e li assoggettano a determinati scopi o domini esterni, dando luogo a un’oggettivazione del soggetto;
4) Le tecnologie del sé, che permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima, dai pensieri al comportamento, al modo d’essere e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi allo scopo di raggiungere uno stato di felicità, purezza, saggezza, perfezione, o immortalità» (Tecnologie del Sé. Un seminario con Michel Foucault, 2005, Bollati Boringhieri, Torino, p.13.)
La cura di sé (“epimeleia heautou” – la cura di se stessi) è un’attività pratica ed educativa, non astratta, tanto meno medica (“Epimelesthai” è l’attività del contadino che si occupa dei campi o del re che si prende cura dei cittadini e della città), è piuttosto cura di sé come cura dell’anima (“epimeleia”): «Nei confronti di se stessi l’epimelia implica un preciso lavoro. Richiede del tempo. Uno dei grandi problemi di questa cultura di sé consiste appunto nel fissare, nell’arco della giornata o in quello della vita, la parte che è opportuno consacrarle» (M. Foucault, La cura di sé/Storia della Sessualità vol. 3, 2001, Feltrinelli, Milano, p. 54).
Nell’antichità grecoromana, tali pratiche consistevano nell’esame di sé, nella consuetudine di scrivere ad amici per narrarsi, in indicazioni su come amministrare il proprio corpo: «possiamo richiamarci allora a un fenomeno spesso evocato: l’emergere, nel mondo ellenistico e romano, di un “individualismo” volto ad accordare uno spazio sempre maggiore agli aspetti “privati” dell’esistenza, ai valori del comportamento personale e all’interesse che si nutre per se stessi» (ivi, p.45,).
Oggi ha preso forma in modo esemplare l’autobiografia, capace di soddisfare il bisogno narrativo insito nell’uomo, viaggio e metodo formativo nell’educazione degli adulti, spazio di conoscenza ed evoluzione personale e come pratica, presente nella cura clinica e capace di trasformare se stessi: «Il momento in cui sentiamo il desiderio di raccontarci è segno inequivocabile di una nuova tappa della nostra maturità. Poco importa che ciò accada a vent’anni piuttosto che a ottanta. È l’evento che conta, che sancisce la transizione a un altro modo d’essere e di pensare. È la comparsa di un bisogno che cerca di farsi spazio tra gli altri pensieri, che cerca di rubare un po’ di tempo per occuparsi di se stessi» (D. Demetrio, Raccontarsi, cit., p. 21).
L’uso dell’autobiografia nel counseling, attraverso il processo di distanziamento emotivo che crea, è in grado di spezzare la limitante coazione a ripetere che crea sofferenza nel soggetto, poiché è l’effetto esternalizzante della narrazione che è capace di porre una disidentificazione tra la persona e il problema, cosicché quest’ultimo diviene un oggetto proprio, visibile e affrontabile. La persona grazie alla scrittura è in grado di guardarsi con uno sguardo nuovo (cfr D. Demetrio, La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Raffaello Cortina, 2008).
Andrea Duranti,
Gestalt Counselor e Counselor Filosofico