L’arte come uno strumento di terapia ante litteram
(di A. Farinaro)
«I miei temi sono stati sempre le mie emozioni,
i miei stati d’animo e le profonde dinamiche che la vita
andava producendo in me,
e ho sempre oggettivato tutto questo
in rappresentazioni di me stessa,
che erano quanto di più sincero e vero potessi fare
per esprimere quel che sentivo di me e davanti a me»
Frida Kahlo
Introduzione
In poche altre circostanze, come nell’atto di contemplare un dipinto, osservare una scultura o soffermarsi ad ascoltare una sinfonia musicale, l’animo umano può predisporsi verso il recupero di una dimensione che potremmo definire “intima”, sottolineando un aspetto dell’arte che contribuisce a consolidare insieme la sua forza e il suo fascino.
Fin dai tempi più antichi l’arte è stata utilizzata come strumento “catartico”, come elemento curativo e di protezione dal male. L’uomo ha infatti iniziato a comunicare visivamente attraverso la produzione di segni e di simboli, da sempre considerati elementi necessari nei riti finalizzati al sollievo e alla guarigione dalle malattie.
Ancora oggi vi sono popolazioni tribali, come il popolo nativo americano dei Navajo, che utilizzano la pittura, la danza e il canto con finalità curative.
Tuttavia il concetto di utilizzo dell’arte come tecnica terapeutica e riabilitativa, si è sviluppato solo in tempi a noi recenti, a partire dagli anni ’40 e ’50 del XX secolo, soprattutto in seguito ai successi ottenuti dall’utilizzo di attività creative nell’ambito dell’assistenza e della riabilitazione sanitaria.
Il concetto di Arte-Terapia è dunque relativamente recente, lo stesso termine implica una riflessione sul legame esistente tra due discipline distinte e allo stesso tempo complementari all’interno di un approccio di tipo terapeutico.
La riconosciuta importanza dell’arte come forma di comunicazione privilegiata, che riesce ad esprimere e ad arrivare la dove le parole non riescono a giungere, ha fatto sì che fosse spesso oggetto di interesse e di studio nel campo della psicologia.
È soprattutto con l’avvento della psichiatria moderna, tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, che si assiste ad un riconoscimento dell’interiorità dell’individuo e allo svilupparsi dell’interesse verso le unioni tra immagini ed inconscio.
Lo stesso Sigmund Freud (1856-1939), attraverso le sue teorie sull’inconscio e l’immagine onirica, colse la straordinaria peculiarità dell’arte come strumento privilegiato di accesso al mondo interiore dell’individuo. Se si studiano con attenzione la sua vita e le sue opere, si prende atto di come l’arte abbia rivestito in esse una posizione rilevante, con una netta preferenza per la letteratura.
Il prodotto artistico per Freud si rivela specchio del mondo interno del soggetto, dei suoi processi psichici. Tuttavia, anche se emerge dai suoi scritti la concezione dell’arte come espressione della patologia, per il padre della psicoanalisi l’attenzione verte più sul prodotto artistico finito che sul processo artistico che ha condotto a quello specifico risultato. Inoltre Freud concepisce ancora l’arte come espressione di individui dalla sensibilità non comune e quindi non adatta per un uso terapeutico.
Come Freud, anche Carl Gustav Jung (1875-1961), fa riferimento all’arte come un mezzo per contattare ed esprimere le immagini appartenenti all’inconscio, ma a differenza del primo, egli porta l’attenzione sul processo creativo, che consiste, a suo parere, nell’attivare le immagini archetipe inconsce, rielaborarle e trasformarle in un prodotto finito. Attraverso la sua teoria sugli archetipi universali e sull’inconscio collettivo, Jung, lontano dal concetto patologico elaborato da Freud, attribuisce all’arte un valore sociale: essa rappresenta un mezzo di comunicazione fondamentale in cui le emozioni individuali diventano generali e collettive.
Jung spingeva i pazienti a disegnare le loro immagini oniriche:
«Dipingere ciò che vediamo davanti a noi è un’arte diversa dal dipingere ciò che vediamo dentro».
L’Arte-Terapia è dunque il risultato di un lungo periodo di “gestazione” all’interno della teoria psicoanalitica, il frutto di una incessante ricerca di nuove possibilità e strumenti da utilizzare all’interno della prassi terapeutica. L’arte stessa, così come il campo della critica d’arte, hanno subito, d’altra parte, l’influenza e il fascino delle scoperte e delle teorie della psicoanalisi, talvolta indicandole come fonti primarie di riferimento: un esempio emblematico è costituito dal movimento artistico del Surrealismo.
Il suo principale teorico e promotore, il poeta Andrè Breton (1896-1966), fu particolarmente influenzato da Freud e nello specifico dalla lettura de L’interpretazione dei sogni del 1894. La stessa Frida Kahlo (1907-1954), la cui opera è stata accostata di sovente al Surrealismo, conservava nella propria biblioteca tutte le opere di Freud apparse fino ad allora.
Nel suo quadro raffigurante il Mosè (1946) (Ill. num. 1) non solo elabora una vera e propria illustrazione figurativa del libro di Freud Der Mann Moses und die monotheistische Religion apparso nel 1937, ma, attraverso di essa affronta le paure e i sensi di colpa sviluppati in seguito ai vari aborti subiti.
I surrealisti rimasero affascinati dall’arte-terapia, basti pensare alla definizione che venne data alla stessa corrente nel primo Manifesto Surrealista pubblicato nel 1924:
«Automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole, o la scrittura, o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero. Comando del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale.»
L’incontro fra arte figurativa e “follia” si sviluppa successivamente sotto il profilo artistico, all’interno del movimento denominato Art Brut, fondato nel 1945 dal pittore francese Jean Dubuffet. L’arte-terapia affonda parte delle sue radici in questo movimento di pensiero, al cui interno venivano proposte opere artistiche realizzate da non-professionisti che operavano al di fuori delle norme estetiche convenzionali (autodidatti, psicotici, carcerati, ecc.) e che dunque si caratterizzavano per l’assenza di riflessione e di pretese culturali.
Fino agli anni ’50-’60 tuttavia i laboratori artistici venivano ancora posti in essere principalmente per tenere occupati i pazienti, in assenza di un profilo terapeutico ben preciso. Sarà soprattutto con il lavoro svolto negli anni ’60 da Margaret Naumburg (1890-1983), che l’arte-terapia si connota come una tecnica di intervento terapeutico autonomo e peculiare.
Per la Naumburg, psichiatra e psicoanalista, l’arte diventa uno strumento finalizzato alla terapia, e non quindi arte come terapia. Il processo artistico era funzionale alla produzione verbale, senza una particolare attenzione ai materiali utilizzati e al processo artistico. La Naumburg utilizzava il disegno spontaneo, detto degli “scarabocchi” come strumento di accesso all’inconscio, incoraggiando i suoi pazienti a fare delle libere associazioni rispetto a quello che vedevano nei propri lavori. Le immagini quindi, come nella procedura psicoanalitica, hanno a che fare con i sogni, le fantasie, le paure, i conflitti e le memorie dell’infanzia.
La storia dell’arte-terapia resta legata al modello psicoanalitico anche nel decennio successivo con la figura di Edith Kramer (1916-2014), considerata madre dell’arte-terapia. Proveniente da una formazione artistica e dall’ ambiente psicoanalitico viennese essa, a differenza della Naumburg, concentra la sua attenzione sul processo creativo vero e proprio, ritenuto di per sé uno strumento terapeutico.
L’espressione artistica del paziente non è vista solo come mezzo per l’espressione dei conflitti inconsci, ma come strumento per la loro risoluzione e come risorsa per la crescita e la maturazione personale. Arte, dunque, finalmente come terapia, dove è la creatività del cliente ad essere utilizzata in una duplice funzione: come espressione dell’attività dell’inconscio e come attività promotrice del cambiamento.
Rispetto ai suoi esordi e alle prime teorizzazioni, oggi l’arte-terapia è qualcosa di profondamente diverso: si assiste da un lato ad una compenetrazione profonda tra i due ambiti (arte e terapia), dall’altro ad una multidisciplinarietà del terapeuta che tende sempre più ad avvalersi di un modello integrato e quindi sempre più a misura del cliente.
Il setting di arte-terapia si configura come un luogo in cui le esperienze primarie, difficili da esprimere in forma verbale, emergono attraverso il mezzo artistico. L’atto di creare, attraverso il gesto, il contatto con i materiali, non è solo la traduzione di un pensiero astratto, ma è anche l’espressione inconscia di un vissuto e l’atto creativo riattiva e rielabora un processo che potrebbe essere stato inadeguato o distorto. L’arte-counseling, nel contesto arte-terapeutico, si connota per la componente dialogica-verbale che viene instaurata con il cliente: le immagini e la formazione di immagini, sono importanti perché attraverso il fare arte i clienti sono invitati a riformulare quello che sentono, a prendere consapevolezza sul come rispondono ad un evento o ad esperienze, producendo su di esso cambiamenti emotivi e comportamentali. Fare arte comporta, per il cliente, il provare attivamente, sperimentare, o riprovare un cambiamento desiderato attraverso un disegno, dipinto, o collage; ossia, comporta il produrre un oggetto che può essere fisicamente alterato, modificato, conservato, utilizzato. Gli strumenti e le diverse possibilità di intervento del terapeuta, così come il diverso significato dei materiali adoperati, o le molteplici funzioni dell’oggetto creato, possono essere compresi adeguatamente solo all’interno della relazione che si stabilisce tra cliente, terapeuta e prodotto artistico.
Frida Kahlo e l’espressione delle emozioni
Premessa
Pur provenendo da una formazione artistica, non sapevo molto su Frida Kahlo, né mi sono appassionata alle sue opere durante gli anni dell’università, prediligendo all’arte contemporanea, lo studio della società e dell’arte moderna, germogliata nel periodo del Rinascimento italiano. La curiosità e il personale avvicinamento alla figura di Frida, «(…) l’unica donna in grado di esprimere nella sua opera d’arte i sentimenti, le funzioni e la potenza creativa femminile (…)», per citare le parole del marito ed artista Diego Rivera, è avvenuto nel periodo della mia formazione come counselor presso la scuola CIPA e dunque in un contesto che potrebbe erroneamente apparire, agli occhi di chi come me possedeva una prospettiva rivolta a cogliere prevalentemente gli aspetti estetici, storici ed artistici dell’opera d’arte, un ambiente estraneo o poco attinente con quello di uno storico dell’arte.
Approfondendo gli studi relativi al counseling, grazie anche ad un approccio di tipo integrato che caratterizza CIPA, ho potuto constatare come in realtà, la mia formazione poteva diventare un valido substrato al percorso formativo affrontato in questi anni, un bagaglio propedeutico nell’ottica dell’utilizzo dell’arte-terapia come strumento a me affine.
Partendo quindi dalla consapevolezza che da sempre l’arte ha viaggiato in parallelo con la psicologia, spesso anticipandone alcune tematiche, la domanda che mi sono posta a monte di questa ricerca è la seguente: se l’arte permette all’individuo di esprimere l’inconscio attraverso la produzione di immagini, di significati e di simboli, ponendosi come “strumento terapeutico” nell’atto stesso della creazione, quanto i grandi artisti, riconosciuti come tali, nell’esigenza del fare artistico, hanno beneficiato di quelle tecniche e di quegli aspetti ascrivibili oggi nell’alvèo dell’arte terapia?
Questo punto di domanda mi ha condotto ad una serie di riflessioni che si sono dapprima concretizzate in un articolo che ha avuto come focus la figura di Lorenzo Lotto, artista veneziano rinascimentale, per poi riproporsi con più determinazione, anche sulla scorta delle maggiori informazioni di prima fonte da cui potere attingere, con l’affascinante figura di Frida.
La straordinaria concomitanza della retrospettiva intitolata “Frida Kahlo”, la più completa sull’opera dell’artista mai presentata finora in Italia, organizzata a Roma presso gli spazi delle Scuderie del Quirinale, mi ha ulteriormente coadiuvato nell’affrontare questa ricerca, offrendomi l’opportunità di poter visionare dal vivo oltre 160 opere tra dipinti, disegni, fotografie e filmati dell’epoca. È stato durante tale visita che mi sono effettivamente imbattuta nella sua straordinaria figura di donna e di pittrice in primis, e, in modo del tutto inaspettato quanto fondamentale ai fini del presente studio, in un corpus di disegni intitolato “Emozioni” semisconosciuto al grande pubblico e di cui io stessa ne ignoravo l’esistenza.
Magdalena Carmen Frida Kahlo Calderòn nasce a Coyoacàn, un sobborgo di Città del Messico il 6 luglio 1907, terzogenita dei coniugi Matilde e Guillermo Kahlo, che avevano quattro figlie.
Ella però sosteneva di essere nata nel 1910, per far coincidere la propria nascita con lo scoppio della rivoluzione messicana: evidentemente aveva deciso che lei e il nuovo Messico, erano nati nello stesso anno, anche se in verità lei era venuta alla luce tre anni prima.
Nella sua vita conobbe molto presto la malattia e la sofferenza: a soli 6 anni si ammala di poliomelite, guarisce, ma la sua gamba destra divenne molto esile e un piede rimase più piccolo dell’altro. E’ in questo periodo che Frida iniziò a creare un proprio mondo di fantasia che la preservasse dalle realtà peggiori, trovando i mezzi e le vie per sfuggirvi. La creazione di un’amica immaginaria, nella quale si rifugiava nei momenti difficili, viene ampiamente descritta dall’artista nel suo diario:
«Origine delle due Frida=Ricordo.
Dovevo avere sei anni quando vissi intensamente l’amicizia immaginaria con una bambina…della mia stessa età, più o meno. (…) Sono passati 34 anni da quando ho vissuto questa magica amicizia e ogni volta che la rammento si ravviva e cresce sempre più dentro il mio mondo (…).» (Ill. num. 2)
Sebbene non ricevette una vera e propria formazione artistica, ella dimostrò ben presto il suo interesse per le arti figurative. Nell’aiutare il padre fotografo a ritoccare le fotografie, acquisì la precisione dell’uso del pennello e fu sempre il padre a mandarla alle sue prime ed uniche lezioni d’arte presso l’amico grafico Fernando Fernandez.
Il 17 settembre 1925 la vita di Frida venne segnata da un terribile incidente: l’autobus sul quale viaggiava fu travolto da un tram. Nello scontro Frida riportò fratture e lesioni gravissime che la costrinsero ad indossare busti ortopedici per il resto della vita:
«(…) Dopo l’incidente iniziai a dipingere, e nacquero l’autoritratto con le nuvole e i ritratti (…) Sono tutti più o meno dello stesso periodo. Con gli ultimi portavo il corsetto di gesso. Mi alzavo dal letto di notte per dipingere (…).»
Prima di questa tragica data, nonostante l’inclinazione artistica, non aveva mai pensato di intraprendere la carriera di pittrice. Fu dunque durante il lungo periodo trascorso a letto che, per vincere la noia e il dolore, cominciò a dipingere. Raccontò un giorno allo storico dell’arte Antonio Rodriguez:
«Ritenevo di avere abbastanza energia per fare qualcos’altro che non fosse studiare per diventare medico. Senza darvi troppa importanza, cominciai a dipingere. (…) Da quel momento (dopo l’incidente) fui ossessionata dall’idea di cominciare daccapo, di dipingere le cose proprio come le vedevo e nient’altro.»
Il suo letto fu coperto da un baldacchino sul quale venne montato un grande specchio in cui potersi specchiare e farsi da modello. Questo tipo di autoanalisi avvenne in un momento in cui, sfuggita dalla morte, cominciava a scoprire e vivere il suo mondo in un modo nuovo e più consapevole. Gli autoritratti l’aiutarono a costruirsi un’immagine della propria persona e a ricrearla sia nell’arte sia nella vita, per trovare una nuova identità. È questo forse uno dei motivi per i quali essi presentano impercettibili varianti, i volti sono sempre uguali, imperturbabili, impermeabili al trasparire di alcun sentimento o stato d’animo. In essi Frida rivolge i suoi profondi occhi scuri, incorniciati dalle folte sopracciglia unite alla radice del naso, direttamente allo spettatore:
«Il corpo è il tempio dell’anima. Il volto è il tempio del corpo. E quando il corpo si spezza, l’anima non ha altro sacrario che il volto…L’orribile, il penoso, ci può guidare alla verità dell’auto-conoscenza. E allora diventa bello, semplicemente perché identifica il nostro vero essere, le nostre qualità più recondite.»
Nel 1928 conobbe Diego Rivera (1886-1957), un pittore già molto noto che aveva il doppio dei suoi anni e nell’agosto dell’anno successivo si sposarono. Sarà un amore duraturo ma turbolento, fatto di reciproci tradimenti e separazioni. Con l’ironia che la contraddistinguerà Frida affermò:
«Ho subito due gravi incidenti nella mia vita, il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego.»
Durante il periodo della separazione dal marito, il critico d’arte Mackinley Helm raccontò: «(…) Un giorno del dicembre 1939, arrivarono nello studio una pila di documenti che convalidavano la separazione da Rivera (…) Frida era molto malinconica, triste. Disse che non era stata lei a chiedere la separazione. Stava lavorando ad una grande tela intitolata Las Dos Fridas (…)». (Ill. num. 2)
In esso Frida narra visivamente l’esperienza non oggettiva della sua sofferenza emotiva legata alla crisi e alla separazione coniugale. La parte di se stessa ammirata ed amata da Rivera, la Frida con abiti messicani, siede accanto al suo alter-ego, una Frida con abiti europei, la donna che il marito non ama più. La Frida respinta tenta di arrestare momentaneamente la fuoriuscita del sangue con un paio di pinze chirurgiche. Il contrasto tra le ricche decorazioni dei vestiti, l’acconciature e i volti chiusi in sé, immobili, crea una particolare tensione, come se i visi rappresentati fossero maschere dietro cui si nascondono i veri sentimenti della pittrice. Quando nel 1939 Diego Rivera le ripropose di sposarlo, lei accettò immediatamente e l’otto dicembre del 1940, in occasione del compleanno del pittore, fu celebrato il loro secondo matrimonio a San Francisco. Fu in questa occasione che Olga Campos, psicologa ed amica di Frida Kahlo, ebbe l’opportunità di incontrarla per la prima volta.
In quel periodo la Campos studiava psicologia all’università e lavorava all’ospedale psichiatrico di Città del Messico. Nella clinica psichiatrica Olga aveva sperimentato nuove terapie basate sulla pittura, e decise di mostrare a Frida i lavori realizzati dai pazienti. Quando alla fine degli anni quaranta Diego Rivera chiede una nuova separazione, Frida, le cui condizioni di salute nel frattempo andarono notevolmente peggiorando, entra in crisi. Olga dovette allora proporre all’amica di rielaborare attraverso la pittura i pensieri di suicidio che iniziarono ad affliggerla, nel tentativo di guarirla. Nasce così la serie di disegni intitolato Emozioni, realizzati tra il 1949-1950 e che sono il fulcro della presente ricerca.
Conclusioni
La vita e l’opera di Frida Kahlo furono legate l’una all’altra in modo indissolubile e caratterizzate da uno stesso principio unitario: “tenere insieme nell’apparenza”. Se si leggono i suoi scritti o se si contemplano le sue opere, se ne percepisce l’emozione, il pathos, la tensione, eppure in nessuna di esse si coglie una tendenza all’”espressività” oltre misura. Il vertice dell’ intensità viene raggiunto nella compostezza, nel contenere e contenersi. Come sottolinea Patrizia Cavalli, questo aspetto della sua produzione è forse anche un riflesso delle sue costrizioni fisiche, della consapevolezza di un corpo fragile, non adatto a contenere l’espressione dell’esuberanza, limitazioni queste che si aggiungevano a quelle legate alla sua attitudine nel vestirsi e nell’acconciarsi i capelli secondo i canoni della tradizione messicana, poco pratici e funzionali al movimento.
Sulla base di questa ulteriore riflessione si può ancora meglio comprendere, a mio parere, l’eccezionalità del corpus dei disegni sopra citati, i quali, alla luce di quanto detto, rivestono un ruolo inedito nella produzione dell’artista. Tali disegni, appartenenti alla collezione Patty e Jim Cownie, non furono concepiti per essere esposti al pubblico, come i suoi dipinti ad olio, ma servirono all’artista come esercizi personali, memorie intime condensate in immagini. Proprio in quanto tali, in essi l’artista si concesse la possibilità di non “contenere” ma di lasciare finalmente spazio all’espressione delle sue emozioni, in cui l’amore e il dolore appaiono strettamente vicini tra loro. In questi disegni, realizzati con matite colorate su carta, vengono rappresentate, attraverso un linguaggio figurativo astratto, le varie emozioni, correlate da una scritta, sempre realizzata dall’artista a matita, che ne indica il tema: Amore, Inquietudine, Paura, Angoscia, Odio, Riso, Pace, Panico, Dolore, Gioia e un “senza titolo”, per un totale di undici opere. (Ill. num. 3)
Se il focus principale dell’arte terapia è posto sul processo creativo, più che sul prodotto artistico finito, il processo di analisi in questo caso volge a ritroso, dalla lettura del disegno come ci viene consegnato dall’artista, per risalire all’analisi della tecnica e dei materiali utilizzati, e poter quindi giungere ad avere quei parametri e quelle indicazioni che sarebbero oggi , anche alla luce delle recenti teorie, ascrivibili alla pressi arte-terapeutica. Partendo dalla tecnica adoperata, si potrebbe sottolineare come, la scelta delle matite conferiscono, a chi le utilizza, la sensazione di un maggiore controllo nella stesura del disegno, risultando particolarmente idoneo il loro utilizzo da parte di chi sente la necessità di strutturare meglio le sue emozioni. Queste impronte creative, realizzate di getto, senza l’ausilio o la mediazione di altri strumenti o materiali, dovettero permettere a Frida di accedere ulteriormente agli aspetti più intimi e nascosti di sé, di poter contattare ed esprimere senza inibizioni le emozioni più recondite, e dunque dovettero rappresentare il punto di partenza per ulteriori riflessioni. I disegni, e in generale le opere pittoriche, possono configurarsi contemporaneamente come oggetti transazionali, percepibili fuori di sé e allo stesso tempo investiti da una parte molto intima di sé: l’immagine diventa un ponte tra mondo esterno e mondo interno, un veicolo attraverso cui si possono comunicare le emozioni inconsce. Sarebbe stato interessante se tale lavoro di analisi si fosse potuto condurre ad un livello di maggiore consapevolezza, sulla base delle odierne tecniche dell’arte-terapia, ed interloquire direttamente con la straordinaria creatrice di tali disegni, applicando nella loro analisi l’interpretazione verbale, con riferimenti al contenuto o alla forma dell’oggetto rappresentato, o adoperando tecniche volte all’amplificazione dell’immagine o di parti di essa, o proponendo l’uso di altri materiali durante l’esecuzione. Tuttavia, se si osserva un disegno come quello raffigurante l’Allegria (Ill. num. 3.1), emerge, dall’analisi del segno adoperato, che si condensa ora in cerchi di varie dimensioni, ora in tratti spezzettati che lambiscono i limiti fisici del foglio, dall’uso di colori caldi, come il giallo e l’arancione, la forza e il carattere positivo di quest’artista, della quale, forse, si è invece troppo spesso sottolineato solo l’aspetto tragico e sventurato. In esso emerge viceversa la sua costante sfida al destino avverso, restituendoci il ritratto di una donna che, anche grazie al suo umorismo, con cui dissimula e supera le sofferenze, mantiene ferma la sua voglia di vivere.
Antonella Farinaro,
Counselor CIPA